L’Inghilterra, l’avversario del continente europeo

recensioni

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Autore: Johann von Leers
Pagine: 61
Data di pubblicazione: 2004
Collana: Quaderni di geopolitica
Prezzo: 15.00 euri
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Quella che m’accingo a illustrare è la terza uscita della collana “Quaderni di geopolitica”, curata da Tiberio Graziani e edita dalle Edizioni all’insegna del Veltro. Intenzione di tale collana è quella di pubblicare brevi testi di importanti teorici della geopolitica che, per un motivo o per l’altro, sono oggi dimenticati. Il fatto che i primi due volumi fossero dedicati a Karl Haushofer, e questo terzo a Johann von Leers, non è certo casuale: il problema è che la ripulsa generale verso il fenomeno nazista degli anni ’30 e ’40 è stata da alcuni strumentalizzata per colpire indiscriminatamente tutti coloro che si potessero anche solo a fatica collegare a tale fenomeno (si pensi proprio a Haushofer, imprigionato in un campo di concentramento hitleriano, eppure tacciato di simpatie naziste). Von Leers fu senza dubbio legato al nazionalsocialismo – come la quasi totalità dei Tedeschi negli anni ’30 e ’40, del resto; ma quando si opta per un approccio scientifico (e lo studio della geopolitica non ne ammette altri), qualsiasi fattore ideologico e persino politico andrebbe accantonato, in modo da permettere una serena indagine e riflessione sull’oggetto in esame, per inquadrare il quale mi rifaccio alla documentatissima (86 note bibliografiche per un testo di 23 pagine) introduzione di Claudio Mutti.
Von Leers nacque nel 1902 e, benché dedicatosi agli studi di giurisprudenza, coltivò numerosi interessi intellettuali e, tra tutti, lo studio di lingue straniere (russo, polacco, yiddish, ungherese e giapponese, oltre al latino). Tramite la moglie, von Leers entrò in contatto con l’antropologo e filologo olandese Hermann Wirth, celebre per le sue ricerche sulle origini dei popoli indoeuropei e dei culti monoteistici. Molto attivo in ambito culturale, con numerose pubblicazioni, collaborazioni e pure direzioni di riviste scientifiche, von Leers seppe inoltre trovare buoni agganci altolocati nel regime nazista; ciononostante egli mostrò sempre una profonda autonomia di pensiero; e Mutti tiene a sottolinearlo, citando ad esempio i suoi interventi contro l’antiebraismo più violento e nichilista e contro l’invasione dell’Unione Sovietica. Quest’ultimo punto rimanda all’amicizia che von Leers nutrì proprio con Karl Haushofer, altro studioso della cultura nipponica e propugnatore di un asse “eurasiatico” Roma-Berlino-Mosca-Tokyo. Ancora interessante fu la durissima critica cui von Leers sottopose l’opera e le teorie di Oswald Spengler, assertore della “unità della razza bianca” contro la “rivoluzione di colore mondiale”: von Leers salutò invece con benevolenza l’avvento di potenze extraeuropee, le quali minavano la supremazia mondiale dell’Occidente.
Come si sarà capito, von Leers – per quanto innegabilmente nazista e autore di libelli antiebraici – fu un pensatore libero ed eterodosso, di cui in effetti non pare peccato interessarsi (e si consideri che l’interesse non sottintende necessariamente la condivisione). Benché il contenuto dell’opera in esame si riferisca a questo primo periodo della vita di von Leers, vale la pena tratteggiare per sommi capi anche quello che seguì al 1945. Internato in un campo di concentramento statunitense, egli riuscì a evaderne dopo diciotto mesi e nel 1950 si imbarcò per l’Argentina, dove sotto Peròn s’era riunita una consistente comunità d’esuli tedeschi. Caduto il Generale nel 1955, von Leers lasciò il paese sudamericano per la volta dell’Egitto, dove aveva preso il potere il Raìs nazionalista panarabo Nasser. Accolto da un vecchio conoscente, il Gran Muftì di Gerusalemme, nel paese dei Faraoni von Leers si convertì all’Islam assumendo il nome di Omar Amin. Nasser affidò la responsabilità del Servizio di Propaganda Antisionista a von Leers, il quale, tra le altre cose, diresse un programma radiofonico, “La voce degli Arabi”, ch’era trasmesso su onde corte e destinato ad ascoltatori europei, africani e sudamericani. Fu impegnato al servizio dello stato egiziano fino alla morte, sopraggiunta il 3 marzo del 1965.
Il testo riprodotto nel “Quaderno di geopolitica” col titolo L’Inghilterra. L’avversario del continente europeo, è la traduzione della conferenza che von Leers tenne in lingua tedesca, il 15 giugno 1940, presso la sezione di “Storia della Civiltà” dell’Istituto Kaiser Wilhelm di Roma.
Il professore tedesco individua nel 1090, e cioè nell’invasione normanna, il punto di svolta e la data di nascita della moderna Inghilterra: prima d’allora, gli abitanti angli, sassoni e juti erano stati pacifici contadini; dopo l’arrivo e la vittoria di Guglielmo il Conquistatore, «l’Inghilterra normanna divenne l’elemento perturbatore di prim’ordine in Europa». Spiega ancora von Leers: «Dal momento che i Normanni presero possesso delle isole britanniche, la politica estera che da lì partiva mutò completamente. Gli Anglosassoni si erano soltanto difesi contro gli attacchi che partivano dalla terraferma. I Normanni invece si servirono dell’Inghilterra come base per reprimere le potenze della terraferma. Per primi hanno valorizzato l’insularità inglese, il vantaggio di essere in una terra senza vicini e inattaccabile, come politica di potenza». Nelle pagine che seguono, attraverso l’attenta rievocazione storica, von Leers individua i tratti principali della strategia “anglonormanna” – tratti nei quali riconosciamo molti tipici elementi della condotta d’una potenza talassocratica. Gl’Inglesi riconobbero nella maggiore potenza continentale – prima la Francia e la Spagna, poi la Germania – il loro principale nemico, e contro di essa rivolsero tutti gli sforzi, tenendo però ben fermi due elementi tattici: la valorizzazione della loro insularità, che faceva d’una minaccia diretta un caso remotissimo; l’aggiramento del proprio punto debole, ossia la debolezza demografica, col ricorso a “truppe ausiliarie”, cioè agli altri paesi europei fomentati contro la prima potenza. L’acrimonia di Londra verso la Francia (e, dopo Sedan, verso la Germania), sarebbe in realtà lo specchio d’una generale ostilità verso l’Europa: l’Inghilterra eleva il proprio status di potenza attraverso la supremazia marittima, e per mantenerla dev’essere sicura che non spuntino concorrenti; in particolare, deve impedire che l’Europa s’unisca sotto una sola bandiera e, assicuratasi per terra, volga le proprie enormi risorse verso i mari (da qui la classica “politica dell’equilibrio”). In un certo senso, possiamo rivedere in questa strategia, la cui formulazione von Leers attribuisce alla regina Elisabetta (seconda metà del XVI secolo), un “clone” su scala minore di quella indicata alcuni decenni prima da Sir Halford Mackinder a dimensione eurasiatica.
La lettura di questo piccolo volume risulta interessante non solo a livello storiografico, ma lo è tanto di più nella misura in cui, traendone spunto, si può attualizzarne il contenuto e trarne qualche insegnamento per le cose presenti. Infatti, come possiamo notare, la condotta geopolitica dell’Inghilterra non è sostanzialmente mutata dopo il 1945, ma si è semplicemente adattata alle mutate situazioni: allo scadimento del ruolo egemone della corona britannica, allo spostamento del centro di potenza mondiale, al tentativo d’unificazione europea. La strategia britannica si è adeguata a questi elementi di novità. Ai primi due, ha risposto accettando un ruolo subalterno agli USA, con tutto ciò che di remunerativo discende dall’essere “braccio destro” della maggiore potenza mondiale. Al terzo, non ha fatto altro che continuare per procura (di Washington) e con mezzi differenti (non più militari ma diplomatici) la tradizionale politica ostile ad ogni saldatura nel Vecchio Continente: compito che esercita dall’interno dell’Unione Europea, tramite lo strumento del veto conferitole dal requisito dell’unanimità, prevenendo per quanto possibile ogni forma d’integrazione politica.
Per quanto sia dunque criticabile la figura di Johann von Leers, egli probabilmente non sbagliava nell’additare l’Inghilterra come «l’avversario del continente europeo».

Daniele Scalea, “Eurasia” 3/2005

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