Ultima Thule. Julius Evola e Herman Wirth
Si tratta in assoluto del primo ed unico studio che intende delineare i rapporti fra lo studioso tedesco-olandese e l’esoterista italiano. Herman Wirth è poco conosciuto in Italia. Di origini olandesi, nel 1910 ottenne la cittadinanza tedesca e nel primo dopoguerra si dedicò allo studio delle tracce dei popoli preistorici europei. La conoscenza di una cospicua quantità di diversificate lingue antiche e moderne, e una straordinaria preparazione sulla preistoria, gli consentì di avvicinarsi ai reperti che man mano studiava con una mentalità molto lontana dalle usuali prospettive accademiche. Non solo, ma per dirla con Evola, “il Wirth ha preteso di ricostruire non solo la storia della razza nordico-atlantica, ma altresì la sua religione. Sarebbe stata una religione già superiore, monoteistica, assai distinta dall’animismo e dal demonismo degli aborigeni negreidi o finno-asiatici, senza dogmi, di una grande purezza e potenzialmente universale”. Utilizzando tutta una serie di dati e di testimonianze tratte dalla storia delle religioni, dal folklore, dalla paletnologia e dalla linguistica il Wirth pensò di poter dimostrare che alle origini dell’attuale umanità si trovasse un continente artico abitato da un popolo che incentrava la propria vita religiosa sul percorso solare e sui significati cosmico-spirituali che il tracciato dell’astro diurno disegna ogni anno. Il Wirth giunse ad enucleare una serie di segni primordiali che chiamò “serie sacra”, servita a questo popolo preistorico non solo come strumento espressivo, ma anche come un sistema di simboli e di notazioni astrali che articolavano il percorso del sole, i ritmi rituali, le forme espressive e probabilmente anche un sistema arcaico di scrittura derivato da questi segni cosmico-sacrali. Julius Evola ha ammesso in molte occasioni la profonda influenza che l’opera del Wirth esercitò sul suo sistema speculativo, ma nessuno aveva osato tentare di chiarire fin dove era arrivata questa influenza. Anzi, la quasi totalità dei biografi, degli estimatori o dei denigratori di Evola, ha solamente utilizzato quanto lo stesso Evola ha detto a questo proposito, non riuscendo neanche a leggere le opere dello studioso tedesco-olandese e restando paghi di quanto ha scritto lo stesso Evola. Un’attenta comparazione dei testi permette ad Arthur Branwen di chiarire fin dove è arrivata questa influenza, cosa ha diviso i due studiosi, i limiti delle interpretazioni wirthiane, quelle che Evola riterrà confuse e farraginose. D’altronde, il punto di vista di Evola si era arricchito della lettura degli scritti di René Guénon che in quel tempo mostravano un diverso modo di studiare le dottrine spirituali e addirittura osavano indicare una superiorità dell’Oriente su un Occidente privo di ogni base rituale e religiosa. Persino l’interpretazione evoliana del mondo romano a poco a poco sembra riposizionarsi sulle prospettive wirthiane e l’arrivo dei Latini nel Lazio diventa un prolungamento delle invasioni nordico-atlantiche che cambieranno la stessa struttura morfologica dei popoli e delle tante tradizioni spirituali che ne deriveranno. Il testo di Arthur Branwen è ben documentato, contiene una serie di dottissime note che da sole avrebbero avuto bisogno di ampliamenti dottrinali ed esplicativi capaci di trasformarle in altrettanti capitoli. La documentazione è abbondante, precisa, attenta e l’autore non si fa sfuggire l’occasione di puntualizzare la portata di studiosi come Frobenius, Pettazzoni, Altheim, Schmidt, Rasmussen, ecc. L’autore ci ha confidato che sta conducendo uno studio parallelo su Evola e Bachofen, e coloro che intendono capire la portata della cultura fiorita fra le due guerre e le prospettive che ne sono derivate, non possono che plaudire ad un’opera che mostra la superficialità di quegli interpreti evoliani (e sono molti) che in realtà non hanno mai studiato veramente il vasto retroterra sul quale sono state costruite le opere dell’esoterista romano. Silvio degli Aurelii
(da “ATRIUM”, 1/2009).