Il linguaggio della lingua
Forse non è esistita una lingua che non abbia arricchito il proprio patrimonio lessicale accogliendo un maggiore o minor numero di voci straniere; per designare tale fenomeno, la terminologia linguistica internazionale usa correntemente un vocabolo, “prestito” (ted. Lehnwort), che un’autorevole grammatica italiana definisce nei termini seguenti: “Si ha prestito linguistico quando la nostra lingua utilizza e finisce per assumere un tratto linguistico che esisteva precedentemente in un’altra lingua e che non esisteva nella nostra. Questo processo di ‘cattura’ e il tratto linguistico così ‘catturato’ in italiano si indicano con lo stesso termine: prestito” (1). Ernst Tappolet (1870-1939), che col suo studio sui nomi di parentela nell’ambito romanzo fu il primo a redigere un’opera di onomasiologia, fu anche il primo a distinguere fra prestiti di necessità (ted. Bedurfnislehnwörter) – quelli che corrispondono a nuovi oggetti o a nuovi concetti – e prestiti di lusso (ted. Luxuslehnwörter) – quelli che affiancano o sostituiscono un vocabolo già esistente e fornito del medesimo significato. Si parla dunque di prestiti di necessità quando “nella lingua vengono introdotti contemporaneamente sia un significato che un significante prima sconosciuto (sputnik, canguro, surf)”; prestiti di lusso quando “per referenti già noti si adotta un segno estraneo (in genere da una lingua di maggior prestigio), di cui interessano proprio le connotazioni di estraneità: maquillage, fard, know-how ecc.” (2). Anziché di “prestiti di lusso”, Carlo Tagliavini (1903-1982) preferiva parlare di “prestiti di moda”; infatti, se “il fenomeno ‘moda’, il gusto dell’esotico, il fascino di una lingua straniera sono comunque alla base del prestito linguistico”, è anche vero che “tutti conosciamo persone che ostentano un uso assolutamente immotivato di parole straniere, ed è chiaro che questa tendenza può facilitare l’afflusso di parole da una lingua all’altra” (3). È evidente che il fenomeno del prestito – sia quello di necessità sia quello di lusso o di moda – trae origine da oggettivi “fattori extralinguistici”; vale a dire si rendono necessarie considerazioni e spiegazioni che la linguistica odierna non è solita approfondire, in quanto attinenti a fatti che essa ritiene estranei al proprio campo d’indagine. Extralinguistici infatti sono fattori quali i movimenti religiosi e spirituali, i rapporti culturali e politici, gli scambi commerciali, i contatti militari che avvengono con le guerre e le invasioni, i flussi migratori; fattori extralinguistici sono la manipolazione della cosiddetta opinione pubblica da parte dei centri di potere, nonché la pigrizia mentale, il conformismo, il servilismo dei dominati. Sono proprio fattori di questo genere a costituire il baricentro del presente lavoro di Rutilio Sermonti, che da un esame delle parole italiane d’origine non latina si prefigge di dedurre informazioni relative alla storia del popolo italiano e, in particolare, alle potenzialità che esso ha manifestate nel corso della sua esistenza. L’intento dell’Autore, infatti, non è di carattere linguistico, bensì storico. Egli protesta ripetutamente di essere, in fatto di linguistica, un modesto dilettante e di non pretendere affatto di aggiungere alcunché ai risultati già acquisiti dall’indagine etimologica, ma di volersene rispettosamente servire. Quello che egli intende mostrare con questo saggio, è che l’etimologia ci può fornire notizie storiche più fededegne di quelle desumibili dalla scienza storica vera e propria, in quanto la storiografia è spesso viziata dai pregiudizi ideologici e dalle manipolazioni di un’intelligencija conformista, asservita e mercenaria. Volendo quindi affrontare il tema dei rapporti storicamente intercorsi tra il popolo italiano e i suoi vicini europei e mediterranei, Sermonti non si occupa del patrimonio ereditario del lessico italiano, ossia delle parole che continuano i corrispondenti vocaboli del latino volgare, né dei latinismi, né dei grecismi, ma concentra la propria indagine sui cosiddetti forestierismi: in particolare su francesismi, germanismi, iberismi, arabismi. A prima vista, questa scelta potrebbe sembrare limitata ed arbitraria. E’ innegabile infatti che il francese ha influito sull’italiano più che non altre lingue e non vi è stato un solo secolo che non abbia registrato l’ingresso di elementi francesi nel nostro lessico; è vero che i termini italiani appartenenti ai diversi strati germanici assommano a circa mezzo migliaio; è vero che il numero di spagnolismi entrati in italiano nel Cinquecento e nel Seicento è elevatissimo, nonostante il calo verificatosi nei secoli successivi; infine, è altrettanto vero che si possono contare circa 600 parole italiane d’origine araba o giunte all’italiano per il tramite dell’arabo. Ora, se in una “galoppata fuori dagli etimi classici” come quella di Sermonti è comprensibile che ci si interessi soprattutto dei prestiti di cui sopra, tralasciando slavismi, fennicismi, turchismi, voci d’origine persiana e sanscrita, nipponismi ed esotismi vari (4), ci si potrà interrogare chiedere perché mai siano stati trascurati gli anglicismi. Se è vero che l’influsso inglese sull’italiano ha avuto scarsissimo rilievo fino al XVII secolo, per cominciare a farsi sentire nel Settecento come conseguenza del fenomeno anglomane (5) e per accentuarsi nell’Ottocento con l’infittirsi dei rapporti culturali tra Inghilterra e Italia, è altrettanto vero che nel corso del “secolo americano”, che ha visto la conquista statunitense dell’Europa, esso è diventato egemone e totalitario. La scelta di Sermonti si giustifica con due ragioni. La prima, esposta in estrema sintesi dall’Autore stesso, è che “le parole inglesi trasformate in italiane senza l’intermediario francese sono assai rar[e], e ancor più gli apporti americani”. In effetti, c’è un’enorme quantità di vocaboli che possono essere classificati come anglicismi solo se ci limitiamo alla loro provenienza prossima; però sono francesismi, latinismi e grecismi se ne consideriamo l’origine remota, sicché costituiscono, come diceva il Migliorini, “un comune patrimonio europeo”. La seconda ragione è che la caterva alluvionale di parole inglesi e americane si è riversata “sull’Italia, non sulla lingua italiana. (…) Restano inglesi, non diventano ‘italiano'”. Verissimo. In genere gli anglicismi si inseriscono nel sistema fono-morfologico dell’italiano in forma non adattata, cioè mantenendo la forma originale, anche se spesso vengono trascritti con una grafia imprecisa e pronunciati in maniera approssimativa. La posizione di Sermonti sembrerebbe confermata da quella di un autorevole cruscante, Giovanni Nencioni, secondo il quale “non conviene dar peso agli anglismi di moda, snobistici, destinati a tramontare (…) né a quelli che ammiccano intenzionalmente all’appartenenza al costume straniero, come fast food, che in bocca italiana ha la stessa intenzione connotativa di pizza o spaghetti in bocca americana”. Il vero problema sarebbero invece gli anglismi scientifici e soprattutto quelli tecnologici, a proposito dei quali Nencioni richiama un analogo precedente della storia linguistica italiana: “la penetrazione, nell’Italia settecentesca, della cultura illuministica per mezzo del principale suo strumento, la lingua francese, che inondò l’italiano di francesismi, provocando una sdegnata reazione puristica” (6). Ma l’analogia storica proposta da Nencioni zoppica un po’; d’altronde è lui stesso a rilevare la differenza tra il francese del XVIII secolo e il tipo di inglese attualmente in uso: “Quel francese era la raffinata voce del più elevato strato etico e speculativo di una cultura nazionale non molto settorializzata e radicata in un profondo humus umanistico”, mentre l’inglese globalizzato “ha assunto il compito di pragmatico interprete di relazioni internazionali e di diffusore dell’attività scientifica e tecnologica del mondo anglosassone (e del restante mondo che condivide quell’attività), con spirito, se non culturalmente neutrale, prevalentemente strumentale. Funge infatti da lingua settorialmente specificata (bancaria, commerciale, diplomatica, informatica ecc.) oppure circùita, nei suoi limiti di lingua naturale, quei risultati delle scienze pure ed applicate che negli aspetti più esoterici ed essenziali si servono di codici artificiali accessibili ai soli iniziati” (7). L’evocazione di concetti quali “esoterismo” e “iniziazione”, in relazione all’attuale funzione dell’inglese, mi induce qui ad una digressione che cercherò di contenere entro limiti accettabili. Più d’una volta sono stato tentato di riconoscere nell’inglese odierno le caratteristiche di una “lingua sacra”, ma, ovviamente, in quel senso invertito del termine che si rapporta all’idea di “controiniziazione”, intesa nel modo precisato da René Guénon. Infatti, come la fase attuale della Zivilisation è caratterizzata da una parodia della spiritualità (il fenomeno New Age), del diritto sacro (i “diritti umani”), del culto dei martiri (l'”Olocausto”), del messianismo escatologico (la vaticinata fine della storia all’insegna dell’universal trionfo liberalcapitalista), della musica liturgica (il jazz, il rock ecc.), dei luoghi di pellegrinaggio (Los Angeles), così l’Occidente ha pure una sua parodistica “lingua sacra”: l’inglese per l’appunto. Nella sua funzione di lingua mondialista, l’inglese si presenta dunque come una contraffazione di quelle lingue, propriamente sacre o anche solo liturgiche, che hanno svolto o ancora svolgono una funzione spirituale di universalità rispetto ad una corrispondente ecumene tradizionale: tali sono, per esempio, lingue quali il cinese, il sanscrito, il latino, l’arabo. Tornando al francese e al confronto che è possibile istituire tra il ruolo di questa lingua e quello dell’inglese, l’argomento potrebbe essere approfondito richiamando le considerazioni che Giacomo Leopardi svolgeva a suo tempo sui francesismi. “Certo è – leggiamo nello Zibaldone – che non ripugna alla natura né delle lingue, né degli uomini, né delle cose, e non è contrario ai principii eterni ed essenziali dell’eleganza, del bello ec. che gli uomini di una nazione esprimano un certo maggiore o minor numero d’idee con parole e modi appresi e ricevuti da un’altra nazione, che sia seco loro in istretto e frequente commercio, com’è appunto la Francia rispetto a noi (ed anche agli altri europei) per la letteratura, per le mode, per la mercatura eziandio, e generalmente per l’influenza che ha la società e lo spirito di quella nazione su di tutta la colta Europa” (8). I francesismi che penetravano nell’italiano fra il Settecento e l’Ottocento erano dunque degli europeismi, mentre gli anglismi odierni sono dei mondialismi, se mi è concesso di usare questi termini. In secondo luogo, se Leopardi riteneva che l’influenza del francese sull’italiano non pregiudicasse i princìpi dell’eleganza e del bello, chi potrebbe seriamente sostenere la compatibilità di tali princìpi con la lingua dell’occhèi? Infatti la condizione sulla quale il Leopardi insiste, è che il barbarismo, oltre a non essere l’inutile doppione di un vocabolo italiano, “non ripugni dirittamente, anzi punto, all’indole generale e all’essenza della lingua, né all’orecchio e all’uso de’ nazionali” (9). Ora, parole come spot, flash, staff, team, soft, hard ripugnano per l’appunto “all’indole generale e all’essenza” dell’italiano a causa della diversità di struttura fonetica, mentre l’italiano sembra aver perso la sua tradizionale capacità di adattare al proprio sistema fono-morfologico la parola straniera (ad es. trasformando beef-steak in bistecca) o di realizzare calchi formali (ad es. riproducendo skyscraper nella forma grattacielo). Ma per essere in grado di selezionare gli apporti forestieri, parlanti e scrittori italiani dovrebbero disporre di qualità che attualmente scarseggiano in maniera particolare, ossia “finezza, profondità, istinto vivissimo del giusto, di quello che una lingua può assorbire, e di quel che non può in nessun modo esserle assimilato” (10). Così la pensava uno scrittore, un eroe, che penso sia particolarmente caro all’Autore di questo libro: Berto Ricci, uno che designava la civiltà dell’okay come “la civiltà del maiale”. (Claudio Mutti, Prefazione)
1. M. Dardano – P. Trifone, La lingua italiana, Bologna 1985, p. 360.
2. G.R. Cardona, Dizionario di linguistica, Roma 1988, p. 245.
3. P. Zolli, Le parole straniere, Bologna 1976, p. 3.
4. Gli studi sugli slavismi presenti nel lessico italiano sono praticamente inaccessibili al lettore non specializzato. Sui fennicismi, si veda l’esauriente (288 pagine!) lavoro di L. De Anna: Storia culturale dei fennicismi nell’italiano. I lemmi del vocabolario, Turku, 1994. Dei turchismi e persianismi giunti in italiano attraverso l’arabo si occupa G.B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia, Brescia 1972, rispettivamente alle pp. 30-36 e 26-30. (E qui oserei citare un mio lavoro sui Vocaboli di origine araba, persiana e turca nel dialetto parmigiano, apparso nel 1997 sui nn. 70, 71, 73, 74 della rivista “Malacoda”). Sulle voci provenienti da lingue asiatiche, africane, americane e oceaniche non conosco lavori specifici.
5. A. Graf, L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII, Torino 1911.
6. G. Nencioni, Il destino della lingua italiana, Firenze 1995, p. 3.
7. G. Nencioni, op. cit., pp. 5-6. 8. G. Leopardi, Zibaldone, 2501-2502. 9. G. Leopardi, op. cit., 2503. 10. B. Ricci, Lo scrittore italiano, Roma 1984, p. 40.